domenica 15 luglio 2007

Nouvelle vague et Les Cahiers du cinéma

Il termine Nouvelle Vague apparve per la prima volta sul settimanale francese L'Express il 3 ottobre 1957, in un articolo a firma Françoise Giroud, e verrà ripreso da Pierre Billard nel febbraio 1958 sulla rivista Cinéma 58.

Con questa espressione si fa riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1959 ed in particolare a quelli presentati al festival di Cannes di quell'anno.

Alla fine degli anni '50 la Francia vive una profonda crisi politica, contraddistinta dai sussulti della guerra fredda e dai contrasti della guerra d'Algeria; il cinema francese tradizionale del tempo assunse una connotazione quasi documentaristica nel testimoniare questa crisi interna, i film diventarono mezzi attraverso i quali rifondare una sorta di morale nazionale, i cui dialoghi e personaggi erano spesso frutto di idealizzazione.
Proprio la tendenza idealistica e moralizzante facevano di questo cinema qualcosa di totalmente distaccato dalla realtà quotidiana delle strade francesi. Fuori dalle finestre c’era una nuova generazione che stava cambiando, che parlava, amava, lavorava, faceva politica in modo diverso ed inconsueto. Una nuova generazione che esigeva un cinema in grado di rispecchiare fedelmente questo nuovo modo di vivere. Così una nuova gioventù, designata dai giornali come “Nouvelle Vague” si ritrova in sincronia con una nuova idea di cinema denominata a sua volta Nouvelle Vague.

La Nouvelle Vague è il primo movimento cinematografico a testimoniare in tempo reale, l’immediatezza del divenire, la realtà in cui esso stesso prende vita. I film che ne fanno parte sono girati con mezzi di fortuna, nelle strade, in appartamenti, ma proprio per la loro singolarità, hanno la sincerità di un diario intimo di una generazione nuova, disinvolta, inquieta. Una sincerità nata dal fatto che gli stessi registi che si sono riconosciuti in questo movimento, tutti poco più che ventenni, fanno anche loro parte di quella nuova generazione, di quel nuovo modo di pensare, di leggere, di vivere il cinema che fu chiamato Nouvelle Vague.

I primi registi a riconoscersi nel movimento sono François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Eric Rohmer, un gruppo di amici con alle spalle migliaia di ore passate al cinema, la conoscenza profonda di centinaia di film, la stesura di decine di articoli, e l’articolazione di centinaia di dibattiti alle porte della Cinémathèque Française. Proprio la Cinémathèque Française fu una tappa fondamentale per la formazione di questi giovani cinefili; fondata nel 1934 da Henri Langlois e Georges Franju, la Cinémathèque era un luogo dove venivano proiettati quei “film maledetti”, secondo la definizione di Jean Cocteau, che per il fatto di disprezzare ogni regola, di essere “uno sgambetto al dogma”, erano diventati letteralmente invisibili.

Si trattava per lo più di film di grandi cineasti europei allora largamente incompresi, Jean Renoir, Roberto Rossellini, Jacques Becker, e di registi americani del dopoguerra, Alfred Hitchcock e Howard Hawks su tutti.


Per i giovani cinefili della Nouvelle Vague l’apprendistato naturale per approdare alla regia era recensire film degli altri come se ci si accingesse a girare i propri, fare della critica non solo una disquisizione orale tra amici, ma un vero e proprio mestiere giornalistico che trovò la sua locazione ideale nei Cahiers du Cinéma, la più autorevole rivista cinematografica francese fino agli anni '60, che raccolse progressivamente trai suoi collaboratori tutti i principali autori della Nouvelle Vague. Cahiers du Cinéma era un vero e proprio manifesto del movimento, ogni testo ed ogni recensione al suo interno costituiscono un programma e una definizione di un cinema prossimo venturo.

Lo scopo cinematografico della Nouvelle Vague era catturare "lo splendore del vero", come disse Jean-Luc Godard nel periodo di critico ai "Cahiers du Cinéma". A tale scopo nella realizzazione delle pellicole veniva eliminato ogni sorta di artificio che potesse compromettere la realtà: : niente proiettori, niente costose attrezzature, niente complesse scenografie; i film vengono girati alla luce naturale del giorno, per strada o negli appartamenti degli stessi registi, con attori poco noti, se non addirittura amici del regista, e le riprese vengono effettuate con una telecamera a mano, accompagnata da una troupe tecnica essenziale costituita per lo più da conoscenti. In questo avvicinarsi sempre maggiormente alla realtà, i giovani registi furono avvantaggiati anche dai progressi tecnologici: in particolare dall'avvento del Nagra, un registratore portatile, quello della videocamera 16mm, leggera e silenziosa. Questa rottura tra riprese in studio e riprese in esterni è illustrata soprattutto in "Effetto notte" di François Truffaut (1973): in una doppia finzione cinematografica, il film ci mostra la realizzazione di un altro film, evidenziando le finzioni tecniche tipiche del cinema classico (scene invernali girate in piena estate, o scene notturne girate, con il famoso "effetto notte" appunto, in pieno giorno); Ferrand, il regista (interpretato dallo stesso Truffaut), ammette che questo film sarà senza dubbio l'ultimo girato in questo modo: una sorta di testamento del "vecchio" cinema e manifesto della Nouvelle Vague.

Il costo delle pellicole era a dir poco irrisorio, per cui ogni regista era capace di auto-finanziare la sua opera, invece di affidarsi alle grandi società di distribuzione, sempre restie nel dare fiducia ad autori che non avevano affrontato un lungo periodo di apprendistato come assistenti sui set di registi internazionalmente noti.

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