giovedì 5 luglio 2007

Charles Spencer Chaplin


In una carriera lunga oltre 70 anni, Charles Spencer Chaplin (1889-1977) è diventato un pilastro del cinema inteso soprattutto come macchina storica e apparato creativo in grado di mettersi in relazione con i rivolgimenti sociologici, con il passare del tempo, con il rinnovarsi delle varie stagioni.

A una popolarità immensa fin dagli anni 10 ha corrisposto un odio feroce da parte dei suoi detrattori, una serie di scandali epocali che invece di distruggerne la carriera come accadde per molti divi dell’anteguerra ne rafforzavano paradossalmente l’immagine. Chaplin è stato l’icona che l’Occidente meglio è riuscito a trasportare nel mondo, più di ogni altro divo e di ogni merce; ma è stato anche un uomo dalle splendide, fertili contraddizioni, riflesse totalmente nella sua opera-frequentatore “parvenu” dell’alta società hollywoodiana e dell’intellighenzia europea, bersaglio preferito dei reazionari americani e del maccartismo, moralista ottocentesco e seduttore novecentesco, uomo di idee ferocemente anticlericali e talora quasi cristologiche, psicologo finissimo e artista talvolta accusato di facile sentimentalismo. Queste contraddizioni complesse si sublimano nella sua opera, considerata oggi capitale, al di là della popolarità (per molti anni lo stesso Chaplin ha fatto circolare solo occasionalmente la maggior parte delle sue vecchie pellicole), soprattutto per la forza narrativa unica, data dalla freddezza della psicologia più sottile (lo spirito di osservazione) e da un pathos assoluto ma controllatissimo, privo di ogni banalità o convenzionalità.


Si tratta di film che mettono progressivamente da parte la comicità degli esordi, che scommettono sulla possibilità di spingere più in profondità il semplice intimismo, verso una visione agrodolce dell’assoluto, dell’universale, attraverso l’individuo novecentesco e la massa. Ottocento e Novecento nel cinema di Chaplin diventano una cosa sola, come non è riuscito a nessun altro regista finora.

Nel primo breve film Making a Living (febbraio 1914), Chaplin riprende i suoi personaggi “europei”, è Kid Auto Races in Venice, dello stesso mese, il momento storico in cui per la prima volta appare sullo schermo la figura dell’omino in bombetta, bastoncino di canna, pantaloni sformati e scarponi. Qui però si chiama ancora Chas, è dispettoso e aggressivo, persino crudele nel suo interrompere una corsa di automobiline per bambini pur di farsi riprendere dalla cinepresa.

Il primo film diretto da Chaplin appare nell’aprile 1914, si intitola Twenty Minutes Of Love e non si discosta dalla formula comica del periodo, a cui bastavano “un parco, un poliziotto e una bella ragazza”.

La forma comincia a definirsi più chiaramente: anche se manca ancora una vera e propria psicologia, le innovazioni di Chaplin si vedono soprattutto nella distensione del ritmo frenetico, in piccoli esperimenti di montaggio, nell’inserimento finora impensabile di occasionali primi piani, nell’importanza data alle didascalie. Chaplin è comunque pronto al grande salto.

Le pellicole da due rulli del periodo 16-18 sono ormai perfette nei loro meccanismi: The Vagabond segna la fine del vecchio Chas e l’inizio del periodo “rosa” di Charlot; Easy Street, The Cure, The Adventurer sono piccoli gioielli di ritmo e di critica sociale.
The Immigrant è l’opera più riuscita del periodo, in cui a una sottotraccia romantica si accompagnano notazioni di una crudeltà rara.
Il nostro autore gira altri due mediometraggi straordinari, A Dog’s life e Charlot Soldato. Il primo è una commedia picaresca nella quale Charlot condivide la propria lotta grottesca per la sopravvivenza con un bastardino; Charlot Soldato è un lavoro più complesso, dove appare per la prima volta il tema del sogno e una struttura circolare, geometrica della narrazione importante per il futuro. Incapace per i suoi piedi a papera di allinearsi agli altri soldati, Charlot si addormenta, sogna di travestirsi da albero e di catturare il Kaiser. I gas, che nella prima guerra mondiale avevano condotto alla pazzia il suo maestro Max Linder, sono sostituiti dal lancio di pezzi maleodoranti di formaggio.

Il 1920 è dedicato interamente alla lavorazione di The Kid, il primo lungometraggio ufficiale. Si tratta probabilmente dell’opera in cui il pathos chapliniano raggiunge il miglior equilibrio. La tenerezza del rapporto tra un Vagabondo ormai universale e il bambino abbandonato dalla madre segna in un modo magnifico la differenza tra sentimento e sentimentalismo.

La Febbre dell’Oro (1925) è uno dei più grandi successi artistici ed economici di Chaplin, la consacrazione definitiva a “re del cinema” nella considerazione popolare e intellettuale. Questi rilegge ancora una volta il tema della trasformazione sociale dell’ingenuità ottocentesca nel monetariato novecentesco; è un primo accenno all’interesse crescente per i temi politici e sociali degli anni successivi.

Tempi Moderni (1936) è un altro film muto, con occasionali effetti sonori ma senza dialoghi. Nel finale Charlot canta una canzone con parole senza senso sull’aria del motivo popolare “Je cherche la Titine”. Tra i suoi lungometraggi, Tempi Moderni è di sicuro il più vicino al vecchio stile chapliniano: definito un insieme un po’ forzato di comiche a tema (Charlot operaio, Charlot vagabondo, Charlot magazziniere, Charlot cantante), assume però un senso nell’idea di base del film, cioè una visione frantumata e meccanica della realtà moderna, angosciosamente surreale, fatta di movimenti incongrui, folle che non sanno dove stanno andando (a lavorare), di droghe, di macchine che nutrono l’uomo, ma in realtà si nutrono dell’uomo, lo ingoiano e lo sputano via. E’ il suo film più nevrotico. Solo la fuga può di volta in volta liberare dai fallimenti, dalle disillusioni, ma ogni volta si ricomincia da capo: anche la “monella” Paulette Goddard (la nuova star e moglie di Chaplin) nel finale passa repentinamente dalla tristezza più assoluta a un nuovo energico ottimismo. Basta una parola di Charlot e tutto, paradossalmente, si ricompone.


Diversi caricaturisti europei notano la somiglianza tra Charlot e Adolf Hitler (il dittatore tedesco era nato tra l’altro a soli quattro giorni di distanza da Chaplin) e spingono Chaplin verso il suo nuovo film, Il dittatore (1940). Girato tra ostacoli non indifferenti, è il suo primo film parlato, pur con ancora ampie concessioni alla pantomima e al non-sense metacinematografico che caratterizzavano i film degli anni 30. Non è certamente il suo film migliore, ma è di sicuro il più importante, il più coraggioso, un grande ritratto dei livelli a cui si può spingere l’assurda e vanesia mediocrità dell’essere umano; lo stesso essere umano però viene celebrato nel famoso e discusso finale, una perorazione lunga oltre 7 minuti in cui Chaplin si spoglia dei personaggi e si rivolge direttamente allo spettatore esprimendo tutto il suo disprezzo per ogni forma di totalitarismo, di destra e di sinistra.



Chaplin scrive e gira in relativa fretta un nuovo film, Monsieur Verdoux (1947). Accolto malissimo negli Stati Uniti, si tratta in realtà di un’opera grandiosa nella sua apparente stringatezza. Girato con pochi mezzi e senza la stessa possibilità di perfezionismo maniacale del passato, Verdoux è un apologo crudelissimo sul 900 ispirato a Henri Landru, uno dei primi serial-killer del secolo.

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