mercoledì 4 luglio 2007

DeMille





Strano destino quello toccato a Cecil B. DeMille: regista di successo già dal muto (il suo storico I dieci comandamenti , del 1923, fu un degno rivale dei kolossal firmati Griffith), mantenne intatto il proprio prestigio col passaggio ai talkies, che anzi lo resero ancor più popolare persino presso il pubblico medio (il suo nome troneggiava sempre in credits e pubblicità), ma, col passare dei decenni, i suoi lavori finirono snobbati tanto dai critici quanto dai cinefili (impazziti al contrario per ogni sorta di trascurato B movie).



Benché i suoi film siano per lo più di non difficile accesso, la sua resta così oggi un'opera poco considerata, che si vorrebbe legata ad un gusto facile proprio dell'epoca (l'Hollywood classica tanto venerata ma così poco frequentata dagli appassionati).










I dieci comandamenti



Il soggetto di per sé non si discosta affatto dalle convenzione del genere “paleocristiano”, ma DeMille brilla (da subito) per visionarietà e (più avanti) per riflessività. La prima lo piazza a metà fra un Griffith ed un Welles (si notino la plasticità dell'incipit, non dissimile da quella del successivo Cleopatra , o la temerarietà di certi movimenti di macchina, come quello che collega esterno e interno della prigione sotterranea) e rinvigorisce anche le scene un po' ripetitive (la drammatica scala che conduce all'arena); la seconda gli deriva dalla ferrea volontà di andare oltre la tradizionale contrapposizione Pagani-Cristiani.

I Romani appaiono senz'altro, anche in questo film, torturatori e tirannici, ma si rivelano al tempo stesso capaci di vivere , mentre i Cristiani saranno certo leali e coraggiosi, ma sembrano derivare le proprie qualità dal cieco terrore e dal senso di colpa.




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